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Omelia dell’Arcivescovo Mons. Carlo Caffarra.

IV DOMENICA DI PASQUA
Celebrazione Eucaristica
per i “Genitori in Cammino”
14 maggio 2000 – Cattedrale

 

1. "Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore." La celebrazione pasquale che, come sapete, dura cinquanta giorni, si propone di introdurci in un rapporto sempre più profondo col Signore risorto, vivente con noi. La parola evangelica oggi rivela precisamente la "verità" di questo rapporto che il Signore istituisce colla sua Chiesa, e con ciascun fedele in essa. E lo fa attraverso una metafora, quella del pastore. Esempio non più così eloquente per noi oggi, come lo era al tempo di Gesù, ma attraverso una meditazione attenta e pacata della pagina evangelica possiamo coglierne ugualmente il significato ultimo.

Il rapporto di ciascuno di noi col Signore risorto è indicato in primo luogo come un rapporto di "appartenenza": al mercenario le pecore non appartengono, al pastore sì. L’esperienza dell’appartenenza è profonda: essa è per la persona umana ciò che sono le radici per un albero. Una volta, visitando una casa di riposo, una persona anziana mi disse: "che cosa ci faccio al mondo; ormai non sono più di nessuno". Il non essere più di nessuno; l’esperienza e la certezza che è del tutto indifferente a tutti che tu esista o non esista; il sentirsi sradicati completamente da ogni rapporto vero con altre persone; in una parola, il non vivere più un’esperienza di appartenenza ci fa morire. Il vangelo oggi inizia dicendoci che il Signore è il nostro pastore e che noi gli apparteniamo. Siamo quindi "suoi".

Ma in che cosa consiste quest’appartenenza? In primo luogo in un rapporto di reciproca conoscenza: "conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me". Questa reciproca conoscenza è un avvenimento assai grande se Gesù lo riporta alla reciproca conoscenza che esiste fra Lui e il Padre. In che cosa consiste? Da parte nostra essa consiste nell’accoglienza consenziente della Parola di Gesù ["ascolteranno la mia voce"], perseverando in essa e lasciandoci come penetrare da essa.

Alla fine, "conoscere Gesù buon pastore" significa aderire a Lui ed essere da Lui guidati nella nostra esistenza, in una intima familiarità.

 La conoscenza da parte nostra di Gesù implica quindi e presuppone la conoscenza da parte di Gesù della nostra persona. Il conoscere e l’essere conosciuti si realizzano come, appunto, una reciproca appartenenza ed un essere disponibili l’uno per l’altro.

Questa relazione fra Gesù e i suoi fedeli è posta in essere dal dono che Egli fa della sua vita: "e offro la mia vita per le pecore". Poiché noi siamo da Lui conosciuti ed a lui noi apparteniamo, egli non può abbandonarci e permettere che altre forze ci rapiscano e ci disperdano. A questo scopo Egli ha donato la sua vita. Si è trattato di una scelta assolutamente libera.

Potendo Egli disporre completamente della sua vita, ha deciso di donarla a noi fino alla morte: "nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il poter di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo". Questa convinzione secondo la quale ciascuno di noi appartiene al Signore a causa del fatto che Egli è morto e risorto per noi, la troviamo in tutta la catechesi apostolica. "Sia che viviamo" scrive S. Paolo "sia che moriamo siamo … del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi". E S. Pietro: "Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra condotta … ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia".

Vedete, dunque, carissimi fratelli e sorelle, quale è la nostra reale condizione umana. Noi non siamo in balia di forze oscure, di un destino inesorabile: apparteniamo al Signore e siamo conosciuti da Lui che per ciascuno di noi ha donato la sua vita ed è risorto. Se noi ascoltiamo la sua voce, se noi crediamo in Lui, entriamo nel possesso della vita stessa del Signore.

La fede, infatti, non è affatto una fra le tante possibili concezioni del mondo. Con essa noi compiamo un passaggio decisivo: il passaggio dalla morte alla vita. "In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non incorre nella condanna, ma è passato dalla morte alla vita", ha detto Gesù. Con la fede, la persona umana abbandona la regione di morte della sua vita ed entra nella terra dei viventi.

2. Carissimi genitori, voi avete vissuto nella vostra vita un momento indicibilmente drammatico. Drammatico, perché in situazioni simili l’enigma del vivere diventa insolubile per l’uomo e, quanto oggi il Vangelo ci ha detto viene insidiato dal dubbio. Dal dubbio che la persona umana sia come esposta ai colpi di un destino indecifrabile, al gioco di forze imprevedibili.

Il fatto che voi siate qui a celebrare l’Eucarestia, ad incontrare Cristo, manifesta la vostra vittoria intima sulla disperazione attraverso la certezza che le parole di Cristo sono vere: "io sono il buon pastore; il buon pastore offre la sua vita per le pecore". La morte è raffigurata nelle catacombe cristiane dalla figura del pastore che porta sulle sue spalle una pecora.

Ecco che cosa è il morire cristiano: essere presi sulle spalle da Cristo e fare su di Lui la traversata all’altra riva, la riva dell’eternità. I vostri figli sono con Cristo; noi ora siamo con Cristo, dunque siamo nella comunione con loro.

Allora diciamo col cuore quanto abbiamo detto all’inizio: "… l’umile gregge dei tuoi fedeli giunga con sicurezza accanto a Te, dove lo ha preceduto il Cristo suo pastore".      

Amen.


Genitori in cammino - ultimo aggiornamento:  martedì 21 luglio 2015